Recensione del concerto dei Pet Shop Boys “Dreamland – The greatest hits tour”, Teatro degli Arcimboldi, Milano, 10/05/2022
Due lampioni illuminano i Pet Shop Boys mentre lo schermo rimanda le immagini di una strada che scorre verso un dove (o un quando) sconosciuto (o forse solo dimenticato).
Neil Tennant canta di una donna che non si annoiava mai, perché non era mai noiosa. Sono le note di “Being Boring” che chiudono un pò malinconicamente un concerto strepitoso e ci fanno pensare al tempo che è passato.
Comincio dalla fine per celebrare due ore di uno spettacolo che per i 2.300 dell’Arcimboldi ha rappresentato un salto indietro nel tempo, perché se è vero che il duo pop più longevo della musica britannica non ha mai smesso di produrre canzoni, è anche vero che i loro più grandi capolavori cominciano ad avere un’età, la stessa di chi ha deciso, come me, di macinare chilometri per venirli a vedere. E Neil Tennant e Chris e Lowe sembrerebbero d’accordo con questa analisi visto che saccheggiano abbondantemente i primi tre album, dimenticandosi della loro produzione post 2000, affidata a tre soli pezzi: “Vocal”, “Dreamland” (che dà il titolo al tour) e Monkey Buisness.
Il concerto si apre con due dei miei pezzi preferiti: “Suburbia” e “Can you forgive her?”. La cover di “Where the streets have no name” e la sempre toccante “Rent” emozionano la platea che si scalda quando la scenografia, all’inizio minimale, si trasforma in un caravanserraglio di luci ed effetti visivi, rivelando al pubblico il resto della band.
Dopo “So hard” sono le note intrecciate di “Single-Bilingual” e “Se a vida e” a far ballare il pubblico che perde del tutto la timidezza quando i nostri eseguono “Domino Dancing” e si lascia definitivamente andare, abbandonando il comodo seggiolino per una sfrenata orgia di danze e balli, quando attaccano “Always on my mind”.

Neil ci stupisce imbracciando la chitarra per “You only tell me you love me, were you’re drunk” che io avrei tralasciato dalla scaletta per inserivi qualcos’altro, magari “King’s cross”. Le ultime due canzoni prima dei bis sono una summa della cosmogonia dei Pet Shop Boys, sono il sacro e il profano, il misticismo e la perdizione, il colore e le luci, sono epica e melodia, sono tutto ciò che hanno rappresentato e ancora rappresentano per noi. Mi riferisco a “Go west” e “It’s a sin”, quest’ultima in assoluto la mia canzona preferita, eseguita in un delirio di laser e luci abbaglianti.
Questa è stata la prima tappa di un tour rimandato per via del Covid e nessuno ne conosceva la scaletta, per quanto il titolo non lasciava spazio a dubbi sul fatto che ci sarebbero state tutte le hits.
Un filmato con i loro volti enigmatici, quando erano all’inizio della carriera, e attraversavano misteriosi le strade di Londra, scorre alle spalle del gruppo mentre “West end girls” chiude degnamente la performance, in attesa della già citata “Being Boring”.
Avrebbero potuto continuare tranquillamente per altri trenta minuti. Hanno eseguito 26 pezzi, ma ne avrebbero potuti fare 40, tante sono le canzoni splendide rimaste fuori. Ma l’incredibile voce di Neil, rimasta iconicamente identificabile nel tempo, ha comunque diritto a un po’ di riposo e così ci salutiamo, noi e loro, ringraziandoli per averci accompagnato per tutti questi anni con il loro inconfondibile e immortale sound.